venerdì 11 marzo 2011

Riforma della giustizia: prove tecniche per un giudizio equo DI WALTER BRESSI


Tendo a precisare che il mio intervento non si propone affatto di essere un’analisi politica circa il merito dei provvedimenti presi dal governo in relazione alla riforma dell’attività giudiziaria, ma, al contrario, un’analisi squisitamente giuridica, basata esclusivamente sul disegno di legge costituzionale che in data 10/3/2011 il Ministro della Giustizia Angelino Alfano ha presentato e fatto approvare dal Consiglio dei Ministri. Per questa ragione, è necessario partire prontamente dal dato normativo. Il ddl si compone di 18 articoli, alcuni di scarsa portata, altri di una rilevanza encomiabile per tutto l’ordinamento giuridico italiano. Per evitare facili noie al lettore, ho preferito mettere in evidenza solo alcuni punti, e valutarne i possibili effetti sull’ordinamento, da un punto di vista pratico oltreché teorico.

Anzitutto, l’art. 1 del ddl, dispone che il Presidente della Repubblica presieda tanto “il Consiglio Superiore della Magistratura giudicante”, quanto “il Consiglio della Magistratura requirente”, assicurando quindi unità all’intero sistema ed evitando, come pure si temeva, che il Consiglio cd. “requirente” (ossia quello in sostanza formato dai pubblici ministeri) diventasse un organo avulso, completamente privo di un qualsiasi controllo nell’interesse dell’unità nazionale. Così evidentemente non è stato.
Ma, più di tutto, di particolare rilevanza sono le modifiche introdotte dagli artt. 5 e 14 di questo ddl.
L’art. 5 esplicita forse il punto cardine della riforma, sostituendo l’art. 104 Cost. con il seguente : “I magistrati si distinguono in giudici e pubblici ministeri. La legge assicura la separazione delle carriere dei giudici e dei pubblici ministeri. L’ufficio del pubblico ministero è organizzato secondo le norme dell’ordinamento giudiziario che ne assicurano autonomia e indipendenza”
Indubbiamente, è una norma che ha dell’epocale, assicurando finalmente la perfetta applicazione nel nostro ordinamento del cosiddetto “modello accusatorio”, in luogo di un sistema precedente che restava incerto, presentando a volte tratti inquisitori. Ci si chiederà il perché. È evidente che la preoccupazione più grande è garantire la perfetta aderenza dell’Italia all’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, laddove è prescritto che debba essere garantito un “processo equo”. Ebbene, un processo equo non può né potrà mai esserci se il cittadino non ha la perfetta garanzia che il giudicante sia una persona che ha sempre e solo fatto il giudicante, senza nessun trascorso nei ranghi della magistratura inquirente, e quindi senza nessuna possibilità di essere influenzato da un modo di pensare nei confronti del reo indubbiamente diverso. In altre parole, non esisterà più la possibilità di passare indifferentemente da un ruolo all’altro. D’altronde, basta osservare quello che accade nell’ordinamento da questo punto di vista (quello delle garanzie ai cittadini) più sviluppato, ossia quello statunitense, per rendersi conto della inevitabilità della separazione delle carriere. A tal fine, ci può aiutare il cinema, con la splendida interpretazione di Anthony Hopkins ne “Il caso Thomas Crawford” dove l’equivalente del pm italiano viene chiamato dal giudice “avvocato”, indossa la giacca e la cravatta e non la toga e si rivolge al giudice dandogli del “lei”, anziché del “tu”,lavorando in luoghi diversi senza nessuna possibilità di contatto prima dell’apertura del procedimento. È indubbiamente questo il modello a cui ci si è ispirati nell’ideare questa riforma.
Il Ministro della Giustizia A.Alfano

Gli articoli 14, 15 e 16 sono norme particolareggiate, che meritano una disamina particolare.
Anzitutto, è aggiunto all’art. 111 Cost. il seguente inciso : “Contro le sentenze di condanna è sempre ammesso l’appello, salvo che la legge disponga diversamente in relazione alla natura del reato, delle pene e della decisione. Le sentenze di proscioglimento sono appellabili solo nei casi previsti dalla legge.”
Valgono senz’altro principi opposti. Se per garantire l’effettività del doppio grado di giudizio, si specifica che è la legge a stabilire se e quando le sentenze di condanna non sono appellabili (e immaginiamo che se una limitazione in tal senso ci sarà, riguarderà indubbiamente reati per i quali sono previste pene gravissime e che ledono interessi primari dello Stato), per le sentenze di proscioglimento (e qui si intravede una prima lacuna tecnica del ddl, che include solo le sentenze di proscioglimento e non quelle che hanno dato luogo ad assoluzione, ma indubbiamente possiamo ritenere la norma estendibile anche a queste ultime) vale il principio della non appellabilità, se non nei casi (anche qui immaginiamo rari) previsti dalla legge. Può destare stupore una simile disposizione? Sicuramente. Tengo a precisare, però, che non aggiunge nulla di nuovo a quanto fatto dall’art. 5 della legge n. 46 del 2006, che ha modificato l’art. 533 del codice di procedura penale, prevedendo che la sentenza di condanna debba essere resa “al di là di ogni ragionevole dubbio”. Anzi, semmai rappresenta una costituzionalizzazione di questo principio. Anche questo è un principio affermato da tempo nel sistema giuridico penale anglosassone, specialmente nordamericano, che incanalato nel sistema italiano perde il suo significato originario, ossia quella di evitare il prodursi di giudizi sommari per reati per i quali era prevista la pena di morte. E certo non si può dire che in questi cinque anni di vigenza codicistica la sua applicazione sia stata esente da problemi, come confermano le numerose sentenze della Cassazione in materia. Sicuramente l’inserimento di questo principio allarga l’onere probatorio a carico dell’accusa, la quale non deve più soltanto portare elementi di prova che dimostrino sic et simpliciter una probabile colpevolezza dell’imputato, ma deve anche confutare qualsiasi tesi proposta dalla difesa, di modo tale che “il dato probatorio acquisito lascia fuori solo eventualità remote, pur astrattamente formulabili e prospettabili come possibili in rerum natura, ma la cui concreta realizzazione nella fattispecie concreta non trova il benché minimo riscontro nelle emergenze processuali, ponendosi al di fuori dell'ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana”, come stabilito dalla sent. N. 19933/2010 della I sez. penale della Suprema Corte di Cassazione, che ha affrontato il problema interpretativo di detto principio. 
Ne consegue, è evidente, che qualora l’imputato sia stato assolto, o meglio ancora prosciolto, vi sia un ragionevole dubbio sulla sua presunta colpevolezza, e per tanto un eventuale appello da parte del pubblico ministero avverso la sentenza resa in primo grado non può che essere destinato a cadere, nell’impossibilità per il giudice d’appello di pervenire a conclusioni diverse, nella corretta applicazione del nuovo art. 533 del c.p.p. Anche questo, sicuramente, costituisce un punto di riforma decisivo nell’evitare ulteriori processi a carico dell’Italia per violazioni delle norme contenute all’art. 6 della CEDU riguardo il giusto processo.

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