giovedì 9 maggio 2013

UNITED COLORS OF ITALY, IL DIBATTITO SULLA CITTADINANZA.


Ha suscitato profondo interesse e scalpore la proposta solitaria ma decisa del Ministro per l’Integrazione Cecile Kyenge di modifica dell’attuale legge sulla cittadinanza, passando da un sistema che privilegia lo ius sanguinis (ossia la discendenza da italiani) a uno che abbia come esclusivo punto di riferimento lo ius soli (cioè tutti coloro che nascono in Italia diventano automaticamente, per ciò solo, Italiani). Prescindendo da considerazioni circa l’opportunità politica di questa proposta, senz’altro “divisiva” nell’accezione usata in questi giorni, e sul suo effettivo livello di priorità nell’agenda del Governo Letta, occorre anzitutto ricordare le norme per l’acquisizione della cittadinanza italiana.

In primo luogo, possono acquisirla tutti coloro che nascono da genitori di cui almeno uno sia italiano. Chi è nato in Italia, ma non è figlio di genitori italiani, può acquisirla al compimento del diciottesimo anno di età (emblematico, in questo senso, è l’esempio del famoso calciatore Mario Balotelli). Per chi invece non è nato in Italia, la cittadinanza la si può ottenere per matrimonio con un italiano/a (dopo due anni), se si è rifugiati o apolidi (dopo cinque anni), o se si risiede ininterrottamente nel territorio italiano per 10 anni, se si è cittadini extracomunitari, o quattro, se cittadini comunitari.
E nel resto d’Europa invece? Le norme sono diverse tra loro, ma un dato è costante : lo ius soli, come unico requisito, non basta ad acquisire la cittadinanza.

  • Nella civilissima Germania, ad esempio, il minore può acquisire la cittadinanza se almeno uno dei due genitori vive nel paese da almeno otto anni e abbia un permesso di soggiorno permanente da almeno tre.
  • In Olanda occorre invece aver compiuto diciotto anni, risiedere ininterrottamente nel paese da almeno cinque e avere un permesso di soggiorno permanente.
  • Anche in Spagna le regole non sono molto diverse : si può acquisire la cittadinanza per residenza (per 10 anni almeno, come in Italia), o per matrimonio (dopo un anno).

A ben vedere, dunque, l’unico esempio di ius soli << classico >> può essere rinvenuto negli Stati Uniti d’America, da secoli ormai meta privilegiata di migranti in cerca di fortuna e condizioni di vita migliori. Ciò serve solo a rimarcare le differenze tra una Nazione “nuova” che si è fondata sull’immigrazione dagli altri continenti e anzi ha fatto proprio di questa il suo punto di forza, stante la domanda continua di forza-lavoro, e Nazioni che invece hanno modellato la loro identità e rispettive differenze nel corso di secoli e secoli di storia. 

Il criterio dell’attribuzione della cittadinanza per ius sanguinis nasce infatti con gli Stati Europei moderni, all’alba dell’800, e pare lontano dall’essere abbandonato nella maggior parte di essi. La preoccupazione fondata, ed espressa recentemente in una nota dal Presidente del Senato Piero Grasso, è che l’Italia si trasformi in meta di pellegrinaggio per partorienti, che non parlano italiano né conoscono molto della nostra millenaria cultura. Più saggio sarebbe invece affidarsi a un criterio misto, a uno << ius culturae >>, di modo che i tanti minori figli di stranieri che frequentano le scuole pubbliche e private italiane, cantano l’inno di Mameli e magari vincono come Lihao Zhang il premio Voghera per la poesia dialettale lombarda, non si vedano negato del tutto il diritto a essere parte di una nazione che da sempre è stata lumen gentium, posta al centro del Mediterraneo e per natura accogliente nei confronti di tutti coloro che col Lavoro hanno inteso renderla sempre più prospera.

In fondo, siamo tutti Italiani.

Nessun commento: